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Burnout

Prima di diventare un agente immobiliare facevo il programmatore. Non ero tra i migliori, ma si diceva che me la cavassi più che discretamente. Mi occupavo anche di grafica, e anche in questo caso probabilmente non ero tra i migliori sulla piazza, ma… eccetera. E sapete cosa aveva buone probabilità di diventare un programmatore con un minimo di gusto estetico e non affetto da daltonismo, a cavallo tra gli anni Novanta e i primi Duemila? Il nome preciso non lo so, ma con ogni probabilità avrebbe lavorato nel dipartimento multimediale di una agenzia pubblicitaria.

Multimediale oggi è una parola che suona vintage come rotocalco o gazzosa, ma al tempo era decisamente cool, la novità del momento. La tecnologia aveva fornito al mondo della pubblicità mezzi nuovi, e tutti i guru della comunicazione sembravano non poterne fare a meno, nonostante a nessuno fosse esattamente chiaro come utilizzarli decentemente. E questo ha portato a un florilegio di siti internet innavigabili pieni di suoni fastidiosi e animazioni inutili, CD-ROM interattivi con testi che nessuno leggeva e video con risoluzioni drammaticamente basse e spesso anche molto brutti. E questo è esattamente quello di cui mi occupavo all’interno di una agenzia pubblicitaria locale, prima di licenziarmi per fondare uno studio assieme a un vecchio amico, con l’idea di fare le stesse cose, ma meglio.

Eravamo bravi, e lavoravamo come dei dannati. Ricordo le notti e weekend passati in ufficio per poter consegnare in tempo i master a corrieri con la fregola di ripartire e col furgone con le quattro frecce fermo sul marciapiede, e l’infinità di ore trascorse a studiare database, linguaggi di programmazione e un imprecisato numero di software. Ovvio che fosse stressante, ma era anche divertente e vario, era impossibile annoiarsi. E questa cosa ci dava la spinta per andare sempre un po’ oltre, e fare il massimo per distinguerci dagli altri.

Passione a parte, a forzarmi a tenere sempre il piede sull’acceleratore c’erano anche un lodevole, quanto non sempre salubre, senso di responsabilità infusomi dai miei genitori, e soprattutto un mutuo ventennale stipulato di fresco, grazie al quale ero diventato felice proprietario di un appartamento. Che era sì ubicato in una delle più isolate, depresse e umide frazioni della bassa padana, ma almeno era qualcosa di mio.

A un certo punto però, attorno alla primavera del 2010, il mio cervello ha iniziato a dare segni di quello che anni dopo avrei saputo chiamarsi burnout. Come nelle più classiche storie di esaurimento da troppo lavoro, senza accorgermene avevo dato fondo a tutte le risorse. I rari fine settimana non lavorativi non bastavano più per ricaricarmi, perdevo colpi, e non riuscivo a tenere i ritmi del socio. Col quale, e per colpa in gran parte parte mia, andavo sempre meno d’accordo. Ne soffrivo, non andava bene.

Ero arrivato al famoso paradigma del sangue e della rapa, e una mattina, riconoscendomi appena nel riflesso dello specchio del bagno, ho concluso che dovevo prendere una decisione, LA decisione, e che dovevo farlo alla svelta.


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