lunedì 22 giugno 2015
Circa due di mesi fa abbiamo affittato un appartamento a una coppia di ragazzi di origine argentina, con un bimbo piccolo.
Durante il primo appuntamento in ufficio, mi avevano raccontato di essere stati per qualche anno in toscana, e che si erano trasferiti dalle nostre parti perché lui aveva trovato lavoro come chef in un ristorante di lusso in città. Al momento alloggiavano dagli zii di lei, che abitavano poco lontano, ma naturalmente si trattava di una sistemazione temporanea.
Non so se in Argentina ci siano trasmissioni come Uomini e Donne, ma nel caso questi due avrebbero potuto essere concorrenti ideali.
Erano entrambi oggettivamente belli, ma di quella bellezza artefatta tipica di certi programmi TV pensati per casalinghe annoiate, nail-artist che lavorano in nero in cucina, e pensionati nostalgici dei vecchi fotoromanzi.
Sapete, l’abbronzatura un po’ eccessiva, i capelli troppo perfetti, i denti troppo bianchi, quelle cose lì insomma.
Però erano simpatici, inaspettatamente alla mano. Il bimbo avrà avuto due anni e sedeva sulle ginocchia di lei, giocando tranquillo con una biro e un foglio bianco, mentre io mostravo foto e planimetrie sullo schermo.
Solamente che, mi rendevo conto, i miei occhi tendevano a guardare per qualche secondo le schede degli appartamenti per poi scappare verso di lei. Poi di nuovo planimetrie e classi energetiche, e ancora lei. Perché ok i denti eccessivamente bianchi, ok il trucco di poche tacche sotto il limite del troppo, ok tutto, ma era davvero bella. Cavolo se lo era.
Cos’è che dicevo sui programmi TV per casalinghe annoiate?
Ad ogni modo, dopo qualche giorno avevamo trovato ai ragazzi un appartamento, e una volta consegnate le chiavi per parecchi mesi non abbiamo avuto altri contatti. Poi un giorno lui mi ha chiamato sul cellulare, per chiedermi un favore.
Il ristorante dove lavorava stava aprendo una nuova sede in una città della riviera romagnola, e lui doveva essere là ogni giorno per addestrare le nuove reclute in cucina, in attesa dell’assunzione di un altro chef. Abitava nell’appartamento sopra il nuovo ristorante già da qualche settimana, e riusciva a tornare a casa qui solo nel giorno di chiusura, ovvero il lunedì.
– Senti, sono partito ieri mattina e mia moglie ha detto che c’è un problema con la cucina, potresti andare a verificare?
– Problema? Che tipo di problema?
– Mah non so di preciso, qualcosa col forno mi ha detto.
– Uhm, forse sarebbe meglio chiamare l’assistenza. È un Ariston se non ricordo male…
– Sì ma magari non è niente di grave, volevamo evitare di chiamare l’assistenza per nulla…
– Ok capisco. – E pensavo: disturbare l’assistenza a pagamento no, disturbare me ‘a gratis’ invece sì…
– E poi – ha aggiunto serio dopo una strana pausa – mia moglie mi ha detto che si fida di te.
In quel momento ho deglutito fortemente. Fossi stato Paperino su una tavola di Cavazzano, avreste letto GLOM in maiuscolo e grassetto uscirmi dal becco.
– Anche io naturalmente! – Ha concluso con tono di nuovo gioviale (troppo?) – Adesso scappo, tu vai là appena puoi ok? Lei è a casa.
Erano le undici di mattina e l’appartamento era sulla strada di casa, e avrei potuto fermarmi a dare un’occhiata a quel forno prima della pausa pranzo.
Però era tutto un po’ strano. O forse era solo paranoia, generata dal senso di colpa per quegli sguardi che mi erano sfuggiti in ufficio?
Verso mezzogiorno quel vago senso di paranoia se ne era già andato, e con tutta la tranquillità dell’uomo in pace con sé stesso, ho suonato il campanello. La porta si è aperta e dall’altro lato c’era lei, sorridente, struccata, ancora in camicia da notte e coi capelli sciolti sulle spalle.
– Sei arrivato subito, non so come ringraziarti…
Glom. Un altro. Più piccolo, ma pur sempre glom.
Mi ha fatto entrare e siamo subito andati in cucina. C’era un puzzo incredibile, nonostante la finestra aperta. L’odore veniva in effetti dal forno, ma non era nulla di grave. Semplicemente aveva attivato senza volere la pulizia automatica, che blocca la porta e alza la temperatura fino a ridurre in cenere tutto quello che c’è dentro. Che in questo caso era un croissant.
Quindi no, le ho spiegato, non aveva rotto niente. Il problema più grosso adesso era la puzza, ma niente che non si potesse risolvere con una bella arieggiata.
– Mi spiace per l’odore però, rovina tutta l’atmosfera – mi ha detto mentre mi rendevo conto che in effetti il soggiorno era immerso nella penombra nonostante fosse mezzogiorno. Gli scuri erano socchiusi, e la poca luce che c’era proveniva da alcune grosse candele, di quelle profumate e coi fiori secchi dentro. Forse le aveva accese per eliminare l’odore di colazione carbonizzata?
– Posso almeno offrirti un caffè per il disturbo?
Avendo esaurito le scuse per guardare altrove (il forno, i disegni del bimbo attaccati al frigorifero, le candele in soggiorno, le piastrelle…) ero ormai costretto a guardare lei.
Era una favola. Una favola in camicia da notte. Una favola in camicia da notte quasi trasparente.
No, non andava bene per niente, volevo rifiutare con tutte le mie forze, e infatti risposi – Sì certo, perché no?
Abbiamo bevuto il caffè praticamente in silenzio, seduti l’uno di fronte all’altra, e ancora adesso non ho idea di cosa stesse esattamente succedendo lì dentro… il tono ambiguo di suo marito al telefono prima, il bambino che quella mattina era dagli zii, quelle candele accese a mezzogiorno, lei splendida e in camicia da notte, con un sorriso che avrebbe potuto tranquillamente scongelare un freezer a distanza.
Sembrava non avere alcuna fretta, e neanche intenzione di lasciarmi andare. Come quei gatti che prima di mangiare il topo, ci giocano. C’era qualcosa di equivoco ma tutt’altro che spiacevole in tutto questo, e la mia bussola morale si era messa a girare a caso come se mi trovassi dentro un tornado elettromagnetico.
Ero forse finito senza volere in una specie di gioco a tre, un quasi “sconosciuto” scelto per ravvivare una vita di coppia fiacca? O semplicemente lei si era accorta dei miei sguardi e voleva scoprire fino a che livello della stratosfera era riuscita a spedirmi la testa?
O magari non era niente di tutto questo: stavo solo mal interpretando tutto, e si trattava davvero solo di una cliente che aveva fatto un casino col forno.
Doveva essere così, per forza. Ed è stato solo aggrappandomi ottusamente a questo pensiero che sono riuscito, a fatica, a staccare i miei occhi da lei e a dirle con la naturalezza di un automa – Adesso devo proprio andare, o arriverò tardi a pranzo. Grazie per il caffè, davvero!
– Sì, capisco, anzi scusa se ti ho trattenuto così tanto. Grazie a te per il forno, poi vado a rimuovere i resti del croissant.
Sorrideva un po’. Il suo sguardo era indecifrabile, non sembrava felice, eppure allo stesso tempo pareva sollevata.
Ci siamo salutati davanti alla porta, e non mi ero ancora completamente girato quando l’ho sentita chiudersi alle mie spalle.
Se fossi stato quel topino, ci avrei lasciato la punta della coda in mezzo. E da allora non ci siamo più visti, né sentiti, com’è giusto che sia. Credo.
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