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Volevo solo che la giornata mi scivolasse addosso

giovedì 9 gennaio 2014

Istantanee. In ufficio, seduto alla scrivania, osservo il mondo al di là del vetro antisfondamento della vetrina. I portici, con il tranquillo viavai di un giovedì mattina di fine inverno, e oltre i portici la strada, con le auto che viaggiano sotto un sole timido alla rassicurante velocità di cinquanta chilometri all’ora. Le cose, le persone, perfino la luce del sole che si riflette sulle carrozzerie dei SUV e delle utilitarie… sembra tutto coperto da un velo grigio, stanco.

Non ho voglia di vedere nessuno, non ho voglia di alzare il telefono per chiamare quel cliente viscido, e non ho neppure voglia di sentire la vecchia signora snob con tre cognomi… voglio semplicemente continuare a guardare quel mondo grigio senza pensare a nulla, e lasciare che il tempo scorra.

Poi entrano, sono in cinque: lui, lei, e tre figli esagitati di circa cinque, otto e tredici anni. Cadenza fibonacciana. I bambini si aggrappano alla tenda, si lanciano sulle poltrone, il padre in tuta da ginnastica rosso fuoco, ultima moda tra i killer della mafia russa penso, parla tre quarti dialetto stretto e un quarto in italiano, e mi chiede se abbiamo appartamenti. Certo, rispondo. La moglie, vestita come per una serata in discoteca, indossa minigonna inguinale, incurante delle forme non proprio da modella, collant coprenti e stivali neri scamosciati, trucco perfetto, i denti della stessa sfumatura di nero del mascara, guarda il marito e non dice nulla. Lavora solo lui, e ne sembra orgoglioso… Purtroppo non siamo nel ‘74, e con quattro persone a carico mi chiedo chi vorrà mai affittargli il proprio appartamento. Credo nessuno. Prendo tempo, gli dico che le chiavi di quel quadrilocale mi arriveranno domani. Mamma e papà mi danno la mano, una stretta fiacca, nel sorriso di lui leggo pura incoscienza, quella che deve aver governato la sua vita dal giorno che è nato, mentre in quelli di lei vedo… non vedo niente, in realtà. Li guardo uscire con i tre figli al seguito. Sono tre bei bambini, vispi e curiosi, sorrido alla bambina con le trecce che si gira a guardarmi prima di chiudere la porta.

Poi entra un ragazzo marocchino, deve lasciarmi dei documenti, parcheggia momentaneamente il camioncino dei rifiuti davanti l’ufficio, questione di pochi secondi, giusto il tempo di fare le due fotocopie.

Mentre inserisco i fogli nella grossa multifunzione suona il cellulare, è ragazzo africano che era passato in ufficio ieri, cercava casa. Mi chiede qualcosa in un italiano solo abbozzato, forse capirei di più se parlasse direttamente in swahili e sono tentato di dirglielo, ma trattengo sia risata che domanda.

Un’ombra alla vetrina, un vecchio famosissimo rompicoglioni, inquilino del palazzo, sta guardando dentro. Vede il ragazzo marocchino che attende le fotocopie ed entra minaccioso.

Intuisco che sta per succedere qualcosa di sgradevole quindi dico al ragazzo al telefono che lo richiamo. Il vecchio si scaglia sul marocchino e gli urla in dialetto che deve togliere di mezzo il suo camion di merda, perché lui deve passare con l’auto! E poi se ne esce in fretta e furia, non sbattendo la porta solo perché c’è il pistoncino ad aria a impedirlo.

Poso il telefono, tranquillizzo il ragazzo che quasi non ha capito cosa sta succedendo, e seguo lo stronzo. Ehi lei, scusi un attimo, gli dico. Mi pianta due occhi rabbiosi in faccia, i denti giallastri serrati, come a dire e tu cazzo vuoi? Mi avvicino, gli dico che il ragazzo se ne stava per andare, e che non c’è bisogno di aggredire la gente. Ribatte urlandomi addosso che la strada non è mica… ma non lo lascio finire, gli punto l’indice in mezzo agli occhi e gli dico di stare zitto, di levarsi dal cazzo e che la prossima volta che avesse provato a mettere piede nel nostro ufficio se ne sarebbe uscito con un calcio in culo. Capisce l’antifona e se ne va senza dire una parola, viola di rabbia.

Rientro e mi scuso con Ismail, si chiama così, gli do le fotocopie, lui mi saluta e schizza via sul camioncino bianco della nettezza urbana.

Dopo alcune ore mi chiama una ragazza, si esprime in un italiano cortese, cerca un appartamento in affitto e ha visto un nostro annuncio di qualcosa che le suona interessante. Le chiedo le credenziali, mi dice che non ha la busta paga, ma che il suo lavoro di escort le permette di pagare senza problemi parecchi mesi in anticipo, anche un anno intero se necessario. – È un problema? – mi chiede… e mentre le dico – Non credo signorina – sorrido nel pensare che la persona meno problematica con la quale ho parlato oggi è una prostituta.

Finalmente è sera ed esco, affronto la rotonda che mi porta verso casa e sul ciglio della strada vedo Lucian, un ragazzo rumeno al quale ho affittato un appartamento pochi mesi fa. Cosa ci fa lì? È un bravo ragazzo, ma ha perso il lavoro, non riesce a pagare l’affitto, e se non salda al più presto le sue pendenze probabilmente tra meno di un mese gli arriverà lo sfratto.

In piedi sul ciglio della strada, forse aspetta qualcuno mi dico, si guarda attorno smarrito. Ho provato una pena enorme per lui… e mi è venuta in mente la scena che ho visto ieri sera, sulla strada di campagna che faccio per andare dai miei.

C’era una lepre, in piedi sul ciglio del canale, paralizzata. Alle sue spalle un enorme trattore avanzava lento. Stava arando la striscia di terra a ridosso del fossato, dove probabilmente aveva la sua tana. E quell’animale se ne stava lì, incapace di muoversi, terrorizzato da quel frastuono assordante, schiacciato tra i fari della mia auto e quelli del trattore, e senza più un posto dove andare.

Io volevo solo che la giornata mi scivolasse addosso.


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