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Come Frank Lloyd Wright

martedì 5 marzo 2013

Il Geometra Augusto Lorenzoni è un elegante ottantenne che frequenta il bar di fianco all’agenzia. Alto e magro, incredibilmente in forma per la sua età, nonostante i movimenti non più fulminei come quando frequentava il campo da tennis del circolo cittadino negli anni Sessanta e Settanta. Indossa quasi sempre completi kaki e camicie chiare, con la classe naturale e non ostentata di un Cary Grant, e un sorriso gentile. Tecnicamente è in pensione da quasi due decenni, ma continua a lavorare nello studio tecnico che aveva fondato nel 1977, perizie per conto di banche e assicurazioni. Voci mai confermate dicono che sia obbligato a esercitare nonostante l’età solo per riempire il buco nelle casse lasciato dalla sua giovane segretaria, e forse amante, qualche anno prima. Scappata col malloppo, specificano quelle voci.

Nonostante i quarant’anni che ci separano, abbiamo scoperto di avere alcune cose in comune: l’humor nonsense, l’acqua tonica col limone, le banane, e l’architettura.

– Se parliamo di architettura – mi ha detto qualche giorno fa ridendo – c’è poco da divertirsi a vendere case da queste parti. Magari sì, potete trovare qualche vecchio palazzo storico, ma poco altro. E comunque, parlo di architettura vera, non di stanzoni affrescati. Belli eh, ma l’architettura è altra cosa.

In effetti tra edilizia popolare del Dopoguerra, villette fatte con lo stampino e condomini tristi tutti uguali, il geometra non aveva tutti i torti. E va detto che anche di stanze affrescate ne vedevamo molto poche.

Questa mattina è entrato in ufficio tutto sorridente, dicendo che aveva portato qualcosa che mi sarebbe piaciuto. Teneva tre grandi cartelline sotto il braccio e una banana in mano. Le ha appoggiate sulla scrivania, si è seduto comodo, e mentre addentava la sua banana, ha iniziato a raccontarmi la sua storia.

All’inizio degli anni Cinquanta lavorava come geometra junior per l’ENI, e seguiva i suoi capi ovunque in Italia e all’estero, su voli di stato per l’Algeria, la Libia, il Marocco e l’Arabia Saudita. Le sue mansioni principali erano quella del portaborse, del gestore di scartoffie che nessuno voleva leggere, e ogni tanto quella di illustratore per impianti e uffici che il neonato colosso dell’energia stava costruendo qua e là, in uno dei periodi più rosei per l’economia italiana.

Un giorno, doveva essere il giugno del 1959, si trovava seduto a un grande tavolo assieme ai suoi capi e a una delegazione di investitori, all’ultimo piano di un hotel affacciato sul deserto marocchino. Dune a perdita d’occhio fuori dalla finestra, aria condizionata a mille dentro l’ufficio, rumore di fogli scartabellati, di matite che appuntano, e di stilografiche che ticchettano sul tavolo.

Gli investitori, tutti vestiti di bianco, erano politici ed esponenti di famiglie nobili locali, posto che abbia senso fare distinzioni di questo tipo. Uno dei più giovani sembrava particolarmente interessato alla tavola illustrata in formato A0 aperta davanti a sé, che rappresentava la futura sede locale dell’ENI. Dopo aver letto la firma sul foglio si mise a cercare il nome tra le targhette sul tavolo. Individuato Augusto, gli chiese se era opera sua. Augusto masticava meno l’inglese dei suoi superiori, ma capì e fece cenno di sì con la testa.

A riunione finita il ragazzo prese da parte il geometra per spiegargli che aveva un’idea in testa per una villa che avrebbe voluto costruire in Francia, e che l’architetto tedesco che lavorava per suo padre era troppo impegnato, e anche troppo tedesco per i suoi gusti. E così, su due piedi, gli propose di progettare questa villa, dandogli totale carta bianca.

Augusto era incerto sul rivelare o meno che di quegli uffici aveva solo fatto l’illustrazione e che il progetto non era suo, ma l’istinto gli disse di tenere la bocca chiusa. Così, con una stretta di mano e due righe scritte su un foglio col nome dell’hotel stampigliato a caratteri dorati, siglarono l’accordo.

Accordo che segnò la fine dell’avventura di Augusto con l’ENI, e l’inizio di una bella carriera come “architetto”, durata quasi una ventina d’anni.

Solo dopo aver finito di raccontare la sua storia, ha appoggiato finalmente l’enorme cartellina sul tavolo. Dentro c’era una raccolta di suoi vecchi progetti, magnifiche tavole a china a volte in bianco e nero e a volte acquerellate, di ville circondate dal verde e grigi palazzi imponenti, parchi alberati, e soggiorni con camino ed enormi conversation-pit, splendide cucine e terrazze sconfinate.

Aveva lavorato per clienti sparsi per l’Italia e all’estero, usando un vero architetto come prestanome anche se i progetti erano in realtà tutti suoi. Lo stile ricordava da vicino quello dei grandi, come Mies Van Der Rohe o Frank Lloyd Wright[i], e mi chiedo se la cosa fosse consapevole o il risultato di una fortunata convergenza di zeitgeist e buon gusto.

Le tavole erano tutte sapientemente composte, c’era chiaramente dello studio dietro, ma, e non so se riesco a rendere l’idea, l’impatto era tutto fuorché scolastico. Augusto sapeva non solo progettare ma anche illustrare in un modo che trascendeva la semplice descrizione degli spazi e diventava in qualche modo arte.

A un certo punto gli ho chiesto se aveva qualcosa di quel suo primo progetto, la villa del petroliere. Ha sorriso, e da un’altra cartellina, più piccola, ha tirato fuori una tavola in formato A4. Gli era rimasto solo quello “schizzo”, tutto il resto l’aveva lasciato al proprietario.

La villa era elegante, senza alcuna traccia di opulenza, costruita a ridosso di una collina, con enormi vetrate che davano sul mare di fronte, quasi incastonata nella roccia ricoperta da vegetazione mediterranea. Era sulla Costa Azzurra.

Da ragazzino, coi risparmi delle mance dei miei genitori e di mia nonna, ero riuscito a fare un viaggio in treno con un amico tra Mentone e Nizza, e nella mia testa ho ancora vivo il ricordo del colore che il cielo e il mare hanno in quella parte della Francia.

E sopra quello schizzo a china ho sovrapposto colori e profumi andati a pescare nella mia memoria, tanto che quasi mi sembrava di essere davvero là, in un’epoca ormai lontana in ogni senso possibile.

Poi ho alzato la testa e ho notato che Augusto, che era rimasto in silenzio, aveva gli occhi lucidi.

– Sapevo che ti sarebbero piaciuti – mi ha detto con quel sorriso quasi hollywoodiano, mentre richiudeva le sue opere nelle cartelline – Andiamo a fare colazione al bar, ragazzo?

E così abbiamo fatto.

Appendice, ottobre 2022

Ho scoperto pochi mesi fa che Augusto se ne è andato, pare tranquillamente, nel sonno. Con eleganza, esattamente come aveva vissuto.


[i] Due tra le figure più influenti della storia dell’architettura contemporanea. Nonostante siano nati l’uno nel 1886 e l’altro nel 1867.


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